Monte Rosa e Gran Zebrù; una cordata che fa amicizia

Siamo nella nebbia.
Camminiamo e affrontiamo freddo e vento dalle 3.30 circa.
È la prima volta che salgo così in alto.

Mi sento leggero, ho un po’ di nausea, comincio a sentire anche fame. Non provo caldo o freddo, ma sto sudando. Controllo la glicemia, è perfetta. Guardo l’orologio, siamo circa a 4300 metri, capisco subito: è la quota che mi sta giocando qualche scherzo. Le gambe vanno, abbiamo fatto 800 di dislivello e quasi non li ho sentiti, è qualcos’altro ciò che non sta funzionando a dovere. Non mi sento al 100%, non mi sento forte come negli ultimi allenamenti.

La settimana dopo sul calendario spicca “Monte Bianco, via Ratti”. Un bell’obiettivo per tutti, qualcosa di disumano per una persona che lotta ogni giorno con la fibrosi cistica. Cristian vede la mia difficoltà e ad un certo punto mi dice: “come va Gabri? Qua saremmo al Piton des Italiens”.

Io parto con i pensieri. Mancherebbero altri 800 metri di dislivello per arrivare in cima al Bianco, impensabile nello stato in cui mi sento ora. Scaccio via i pensieri e cerco di concentrarmi sull’obiettivo della giornata: la Capanna Margherita. Con noi ci sono Mirko, un ragazzo trapiantato di reni, e Gianluigi, medico di medicina di montagna del CeRiSM, che ci segue in questa nostra impresa. Passo dopo passo, alle 8.13 ci troviamo davanti la magica struttura metallica del rifugio più alto d’Europa.

L’emozione ha il sopravvento su tutto: ce l’ho fatta, ho portato la fibrosi cistica sul Monte Rosa. Abbraccio Cristian, compagno di qualche avventura e sicuramente compagno di future avventure. Mi giro e guardo Mirko. Siamo stanchi, ma anche soddisfatti, scoppiamo a piangere dall’emozione e ci abbracciamo.
Ce l’abbiamo fatta, abbiamo portato le nostre sfighe a Capanna Margherita.

Entriamo per scaldarci e mangiare qualcosa. A quel punto, per qualche strano stratagemma del mio corpo, la nausea lascia spazio ad un enorme senso di fame e come d’incanto a 4554 metri mi sento molto meglio rispetto a qualche centinaio di metri più in basso. Vado da Cristian, e ammetto di non essere nella forma e condizione adatta per affrontare il Monte Bianco, lui è dello stesso parere, ma mi ricorda che la montagna non si sposterà, il Bianco sarà lì anche l’anno prossimo.

La storia tra me e Cristian inizia a Febbraio 2020, quando mi scrive su Facebook dicendomi che conosce la Fibrosi Cistica, che sa cosa passo ogni giorno e cosa ho passato fino ad ora. È felice di vedere come io abbia trovato il modo di convivere con la malattia vivendo e salendo le montagne e così decidiamo di tirare insieme uno schiaffone alla Fibrosi Cistica. Programmiamo quindi per agosto la salita al tetto d’Austria: il Grossglockner.

Vedendo però che le restrizioni anti-COVID aumentavano e non volendo mettere a rischio la nostra salita, decidiamo di virare su un obiettivo più vicino e così optiamo per il Gran Zebrù: una montagna iconica. Questo mostro sacro ha la tipica sagoma che un bambino disegnerebbe, una piramide di roccia con un po’ di ghiaccio che sovrasta Solda e si potrebbe definire il Cervino dell’Alto Adige.

Io sono reduce da un’estate in cui sono andato poco, ma in cui ho portato a casa la Presanella e Cresta Croce. Partiamo di buon’ora dal rifugio per la nostra cima e la salita si rivela subito più complicata di quanto pensassi. Il canale della normale al Zebrù risulta completamente secco: è uno scivolo di sfasciumi. Il posto più faticoso da cui salire. Ogni passo in salita corrispondeva a mezzo passo scivolando in discesa, e utilizziamo quindi i ramponi nella terra per avere più tenuta.
Usciti dal canale piccola sosta per qualche foto e per regolare la mia glicemia, poi si riparte.

La seconda parte di salita è composta da una facile arrampicata, dove ogni tanto incontriamo qualche spit, qualche sosta per eventuali successive calate in corda doppia e una corda fissa. Arriviamo a una baracca dove facciamo nuovamente qualche minuto di pausa per controllare la glicemia e prendere fiato.

Per l’ultimo pezzo dobbiamo calzare i ramponi, attraversare una piccola parte di ghiacciaio e salire in quella che sarà la cresta finale ed è in quest’ultimo pezzo che la fatica comincia a farsi sentire. Camminare sulla neve è più tedioso. Fatico, più che in ogni altra uscita di quell’anno. Mi sento vivo, ma lo sforzo è troppo e c’è anche la discesa da fare. Sono talmente in affanno che mi scappano di bocca le parole della ritirata. Cristian mi ignora e continua ad andare. Io, seppur al limite, continuo a mettere un piede davanti all’altro e a salire. Dopo qualche minuto siamo alla cresta finale, dove sparisce la fatica appena ci fermiamo per togliere i ramponi.

Dieci metri di salita e siamo in cima. Il cielo è per lo più sereno, c’è qualche nuvola stirata dal vento. Siamo solo io, lui e il cielo sulla punta. Parliamo poco, ma imprimiamo nelle nostre menti e nei nostri cuori questo momento che non dimenticheremo mai. Chiamo ed avverto Nicole ed i miei genitori che siamo in cima, ben sapendo che la parte difficile arriva adesso, anche Cristian chiama Valentina per aggiornarla.

Pochi minuti e iniziamo la discesa, che si rivela abbastanza agevole fino all’imbocco del canale. Scendere dal canale risulta molto più difficoltoso che risalirlo, poiché ogni passo significa smuovere materiale. Ad un certo punto mi ritrovo nei sassi fino alle ginocchia, fermo ma allo stesso tempo in movimento. Con non poche difficoltà riesco a scendere, mentre a vedere Cristian sembra di passeggiare in corridoio. Per ora di pranzo siamo di nuovo in rifugio per rifocillarci.

Ancora non mi rendo conto di dove siamo stati e sinceramente non ci penso. Mi godo il momento, e mi rendo conto di quanto io sia fortunato a poter vivere queste esperienze.

Durante queste poche esperienze di alta quota sono arrivato a capire come e dove la fibrosi cistica si fa sentire. Fatico tanto, molto più rispetto ad una persona normale. Che sia a correre, a camminare in salita o ad arrampicare, consumo di più e mi stanco più di persone “sane”; perciò, per fare le stesse uscite devo essere più allenato e più in forma dei miei compagni di scalata. Buono a sapersi, ora c’è tutto l’inverno per allenarsi, imparare a sciare, progettare le prossime uscite e perché no, magari anche per laurearsi…